Descrizione del primo apparato sperimentale (e consigli tecnici per tentare di riprodurre l’elettrolisi al plasma) A cura di D. Cirillo e V. Iorio Abbiamo utilizzato una cella in vetro protetta da una camera laterale, sempre in vetro, all’interno della quale abbiamo praticato il vuoto. Sia ben chiaro che, anche grazie a questi accorgimenti, il calorimetro è purtroppo dotato di forti perdite termiche, non altro per il fatto che il lato superiore deve essere completamente aperto per permettere la fuoriuscita dei gas prodotti dall’elettrolisi. Risulta evidente quindi, che è necessario praticare oltre alla misura calorimetrica standard, anche una misura della quantità del liquido evaporato per stabilire l’ammontare dell’energia termica accumulata nella cella. La cella è stata dotata anche di un prolungamento superiore costituito da due stadi di materiale diverso, uno di polietilene e l’altro di polipropilene con funzione di paraspruzzi. Superiormente alla cella è stata collocata una cappa aspirante costituita da un tubo da 18 cm di diametro alla cui estremità è stata posta una ventola funzionante in corrente alternata. La ventola aspirante è specifica per questo tipo di compito. State molto attenti ad utilizzare in questi casi solo ventole specifiche per aspirazione di fumi fiammabili. La distanza fra la bocca del tubo aspirante e la parte superiore della cella è di circa 10 cm, sufficiente per connettere le terminazioni elettriche agli elettrodi e collocare i trasduttori di misura. Il tubo a tiraggio si erge in alto per una distanza di circa un metro. È molto importante aspirare i gas che si vengono a generare durante l’elettrolisi. Questi gas devono essere velocemente diluiti all’esterno poiché possono innescare pericolose esplosioni. Non approvo molto le immagini in rete nel sito di Naudin che illustrano una sistemazione troppo “fai da te” della cella e persuadono l’eventuale lettore che il fenomeno può essere riprodotto con facilità. Ricordo a tal uopo che recentemente in Giappone la cella del professor Mizuno è esplosa per un probabile accumulo di gas all’interno di essa. La cella di Mizuno non permetteva una facile diluizione dei gas verso l’esterno, e non era dotata di schermo di sicurezza. Ricordate che la cella, anche se nelle condizionidi regime di plasma produce una ridotta quantità di gas, nelle fasi iniziali e finali si genera un’intensa produzione di idrogeno e di ossigeno in quantità stechiometricamente esplosive. La concentrazione della soluzione elettrolitica, per ottenere un ottimo effetto di plasma a carico dell’elettrodo catodico è costituita da 0.5 M di K2CO3. Una quantità pari a 200 ml di questa soluzione permette di riempire la cella al livello opportuno per evitare fuoriuscite di spruzzi oltre il livello del paraspruzzi. Il carbonato di potassio non è il solo sale che possiamo utilizzare. Attualmente il nostro gruppo di Caserta sta lavorando per studiare gli effetti per i diversi tipi di elettroliti. Proprio sopra il paraspruzzi è fissato un supporto plastico di metacrilato forato sul quale sono allocati sia il catodo che l’anodo distanziati per circa 4 cm. L’esperienza di Naudin utilizza un catodo di tungsteno e un anodo costituito da una pagliuzza di acciaio inossidabile. Nel nostro caso invece abbiamo utilizzato sia per il catodo che per l’anodo due elettrodi cilindrici di tungsteno puro di 17,5 cm con spessore 2,4 mm. Per reperire gli elettrodi di tungsteno, basta rivolgersi a negozi di ferramenta attrezzati per la saldatura tipo TIG. Inizialmente, siamo stati costretti ad adoperare questi tipi di elettrodi, che se scelti opportunamente sono costituiti da tungsteno molto puro. Tuttavia è necessario ricorrere a elettrodi di tungsteno molto più professionali nel caso debbano essere intraprese misure ed analisi approfondite. Per quanti, volendo iniziare le prove, volessero adoperare elettrodi tipo TIG segnaliamo che in commercio esistono elettrodi contenenti circa il 2% di ossido di torio. Per quanto normalmente venduti ed ammessi dalle leggi italiane (dal 2004 non dovrebbero essere più venduti) io sconsiglio vivamente l’utilizzo di questi ultimi. Poiché durante la reazione elettrolitica si osserva un certo consumo dell’elettrodo catodico, utilizzando tungsteno tipo toriato, incorrereste certamente in pericolosi inquinamenti della vostra soluzione con estremo pericolo per voi stessi. Il torio, come voi già sapete, è radioattivo. Scusate se mi ripeto su questo punto ma, state molto attenti. Il tungsteno toriato infatti, sta per essere ritirato dal commercio e al suo posto si sta già commercializzando un altro tipo di elettrodo TIG chiamato tungsteno ceriato che contiene cerio al posto del torio. Comunque, presso un rivenditore di utensili ed accessori per saldature, è possibile reperire con relativa facilità anche elettrodi costituiti da tungsteno puro quindi non dovreste avere difficoltà a procurarveli. La maggior parte dei produttori di questi elettrodi, utilizza un contrassegno verde per indicare l’elettrodo di tungsteno puro, mentre utilizza un contrassegno rosso per indicare quello toriato. Nelle immagini in rete sul sito di Naudin si osserva che l’elettrodo catodico è a sua volta racchiuso in un tubicino di vetro. Questo espediente sembra essere molto importante per permettere la scarica di plasma sul catodo. Ci siamo accorti (intanto per le condizioni sperimentali che sto descrivendo), che occorre lavorare con circa 1 cm di elettrodo catodico scoperto. L’anodo invece può essere collocato senza particolari problemi. Il tubicino di vetro utilizzato per coprire parte del catodo è di tipo pirex ma il nostro gruppo di Caserta ha ottenuto migliori risultati quando abbiamo utilizzato un tubo ceramico. Infatti, quando la scarica di plasma viene generata, le temperature presso l’elettrodo raggiungono livelli elevatissimi. Nello strato di plasma pare che si verificano livelli di temperatura che oltrepassano i 3000 °C (scarica filmato).In queste condizioni operative così estreme del catodo, il vetro del tubicino che lo avvolge si degrada e fonde. Normalmente la scarica di plasma prima passa per una fase azzurra molto breve poi si porta ad assumere un colore rosso arancio, infine raggiunge nelle condizioni a regime un colore viola o rosa per poi fornire al completamento ottimale delle condizioni di funzionamento della cella, un colore bianco. Se usate il tubetto di vetro, durante la prova osserverete purtroppo anche una curiosa colorazione gialla posta sopra la zona di plasma che inquina i risultati di analisi radiometrica del bagliore. Questa colorazione, indica appunto la fusione del vetro del tubicino. Il colore giallo è caratteristico dell’emissione spettrale del sodio che è contenuto nel vetro. Per evitare questo fenomeno è possibile usare un tubetto di ceramica refrattaria come l’allumina o altri tipi similari. Per apprezzare la qualità della scarica di plasma e determinare esattamente gli istanti temporali quando essa si presenta, abbiamo collocato nel nostro impianto due sensori. Un sensore è costituito da una cella fotoresistiva in grado di darci informazioni generali sulla luminosità della cella. L’altro sensore è costituito da un pirometro in grado di monitorare lo spettro di energia luminosa prodotto dal catodo. Nell’articolo di T. Mizuno e T. Ohmori del 1998 ( ICCF-7) si legge che la reazione elettrolitica produce un flusso di neutroni pari a circa 60.000 conteggi al secondo. Vorrei far osservare che se questo dato corrisponde al vero (noi riteniamo che il flusso possa essere molto basso), non è conveniente procedere alla verifica di questa esperienza senza munirsi di particolari protezioni. I neutroni sono un tipo di radiazione estremamente subdola e pericolosa. Essendo particelle privedi carica elettrica possono attraversare molti centimetri di materia prima di fermarsi. Inoltre, se i neutroni fossero molto energetici potrebbero facilmente essere riflessi da alcuni materiali presenti nel laboratorio ed essere quindi molto pericolosi. L’intensità di un flusso neutronico da 1MeV può essere ridotta alla metà solo dopo che essa attraversa 10 cm di acqua, oppure 4,5 cm di calcestruzzo, oppure 0,9 cm di piombo. Se invece il flusso originario fosse di 10 MeV occorrerebbero 14 cm di acqua per dimezzarlo. Fate attenzione che sto parlando di dimezzamento del flusso di neutroni. Quindi, per ridurre a livelli trascurabili il flusso della radiazione, occorrerebbe moltiplicare per 4 o 5 volte gli spessori delle sostanze che ho elencato sopra. Attualmente non conosco lo spettro di energia dei neutroni che vengono prodotti da questo esperimento. Comunque è molto importante sapere che la paraffina e il polietilene sono altri materiali schermanti grazie alla grande quantità di idrogeno presente nelle molecole che li compongono. Nel disegno allegato (fig1) appare in evidenza una finestra trasparente in metacrilato (plexiglas) posta proprio davanti alla cella. Questo schermo ( che ha uno spessore di diversi centimetri) è in grado di dare una certa protezione per i neutroni, se occorre necessariamente effettuare osservazioni del fenomeno, augurandosi che l’operatore si ponga a debita distanza e operi per brevissimi tempi. Un consiglio potrebbe anche essere l’uso di specchi combinati opportunamente per l’osservazione. A questo punto è spontaneo da parte del lettore chiedersi se noi abbiamo misurato o meno un flusso di neutroni. Allo stato attuale non possiamo rispondere concertezza a questa domanda. Il nostro precario contatore di neutroni (ne sono stati studiati molteplici) ha fino ad ora conteggiato solo dei disturbi elettromagnetici. Pertanto, sarà importante leggere una nostra successiva comunicazione per conoscere eventuali risvolti e sapere qualcosa di più concreto su questo punto. A questo punto parliamo della misura di temperatura che ha presentato subito diversi problemi a causa delle forti emissioni elettromagnetiche del plasma che dicevamo poc’anzi. È stato deciso di utilizzare un sistema integrato di acquisizione per tutti i segnali rilevati dai trasduttori, a sua volta completamente gestito da un personal computer, con un programma realizzato ad hoc per questa esperienza. Pertanto, è stato necessario utilizzare delle termocoppie per misurare le varie temperature presenti nel processo. Il sensore di misura della temperatura immerso nella cella è costituito da un involucro in vetro al cui interno è stataposta una termocoppia tipo J (ferro costantana) a sua volta schermata da un contenitore cilindrico di ottone cromato posto a massa. Questa disposizione non ha impedito la presenza di forti disturbi elettromagnetici che si presentano in modo evidente nel grafico mostrato come esempio allegato in questo articolo. Un’altra termocoppia è posta (isolata galvanicamente) a diretto contatto dell’estremità superiore del catodo. Grazie a questa termocoppia è possibile ottenere informazioni sulle vicissitudini termiche di questo elettrodo. Un’ultima termocoppia è posta nell’ambiente per avere a disposizione anche quest’ultimo dato termico. Per l’alimentazione elettrica della cella è stato utilizzato un variac connesso ad un alimentatore in corrente continua in grado di erogare una tensione variabile da 0 a 340 volt con possibilità di fornire anche correnti di spunto di 8 A. Il sistema computerizzato registra costantemente tutte le grandezze campionandole diverse volte al secondo. Quindi, mentre l’operato reregola il variac modificando il valore della tensione applicata alla cella, il sistema registra il valore di questa tensione, il valore della corrente circolante nel circuito di cella e tutti gli altri trasduttori presenti. In questo modo il sistema procede al calcolo delle calorie introdotte e di quelle via via misurate grazie ai sensori termici. In allegato è presente la figura (fig2) che mostra come esempio quattro grafici relativi ad un’acquisizione effettuata nel mese di novembre 2003. Il primo grafico mostra l’andamento della tensione regolata manualmente tramite il variac. Le variazioni riportate, sono state praticate volutamente per attivare il fenomeno di elettroplasma per tre volte durante i 1200 secondi della durata totale della prova. È possibile vedere anche l’andamento della corrente e della temperatura della soluzione. Confrontando i grafici di tensione con quelli ottenuti in risposta dal radiometro è possibile determinare la condizione di innesco riportata tramite una freccia rossa. In questo specifico caso l’innesco dello stato di plasma si è verificato ad un potenziale vicino ai 143-150 volt. Sia nel report originario di Mizuno/Ohmori che nell’articolo in rete di Naudin si legge che la soluzione di K2CO3 deve essere preriscaldata ad un atemperatura di 70 °C. Questa consuetudine operativa serve per guadagnare tempo e raggiungere immediatamente la condizione di innesco che per ragioni teoriche che più avanti vedremo, avviene proprio ad una temperatura superiore a 70 °C. Avere una soluzione già a 70 °C inoltre, riduce il tempo di pre-plasma e riduce la quantità di gas fiammabili che si producono. Quindi, per condurre l’esperimento, è necessario porre il variac a zero volt e procedere lentamente fino al di sotto del punto di innesco senza oltrepassarlo. A questo punto esaminando i valori via via riportati dal computer è possibile determinare una linea di base e calcolare le perdite calorimetriche in questa condizione. Consiglio uno scan non superiore ad un centinaio di secondi a circa 120 V di cella. Una volta modificate le costanti nel programma si potrà procedere per la prova vera e propria raggiungendo il punto di innesco e misurando quindi, livelli di energia termica sensibilmente maggiori delle aspettative. Molto importante deve essere anche il dosaggio della depressione creata dall’aspiratore dei fumi che non deve in qualche modo modificare la pressione sulla cella per evitare che varino i parametri calcolati a pressione atmosferica.
Conclusioni e teorie Attualmente non possiamo e non vogliamo procedere oltre le prove pratiche che abbiamo già effettuato. Le ultime esperienze infatti, sono state effettuate in un laboratorio campale che non ci consente di operare in comodità per cui il nostro interesse alla cosa si sta attualmente concentrando solo sugli aspetti teorici circostanziati a verificare le probabili reazioni di trasmutazione. Nella relazione di T. Mizuno e T. Ohmori riportata nel bollettino ICCF-7 i ricercatori del sol levante hanno pubblicato questo tipo di reazione nucleare: Essi, probabilmente sono certi di spiegare il fenomeno energetico attraverso una reazione di fissione. Questa reazione nucleare spiegherebbe in qualche modo la rilevazione dei neutroni che i due ricercatori dicono di aver misurato. Infatti, se consideriamo i pesi atomici dell’equazione, essa è perfettamente bilanciata. Se però analizziamo i numeri atomici ci troviamo 12 protoni in più.  (Questi protoni tramite il noto processo di interazione debole si trasformeranno a loro volta in elettroni positivi (positroni) e in neutroni. È proprio a causa di questo grande numero di elettroni positivi prodotti da quest’ultima reazione che viene promosso l’intenso stato di plasma a carico dell’elettrodo. Nei pressi dell’interfase catodica quindi, la violenta reazione di combinazione delle cariche ioniche che si ossidano e si riducono presso l’elettrodo, probabilmente catalizzata dagli atomi di potassio presenti nell’elettrolita innescano in qualche modo questo processo. T. Mizuno e T. Ohmori hanno riportato un dato interessante. Se l’elettrolita viene cambiato utilizzando del solfato di sodio, il numero dei neutroni prodotti si riduce notevolmente. Questo fatto deve farci riflettere attentamente e dimostra che l’elettrolita può modificare il risultato di questo esperimento. Siamo certi di poter affermare che il fenomeno deve essere studiato attentamente per analizzare la possibilità di poter utilizzare un nuovo tipo di energia oppure soltanto per raggiungere sufficiente conoscenza sulla struttura della materia e sulle possibili implicazioni che questi effetti possono portare sulla comprensione del nucleo atomico. Le trasmutazioni che avvengono nella cella sono in grado di mostrarci palesemente che non conosciamo ancora molto bene la struttura intima degli atomi e tutti gli effetti della materia condensata.
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